Panchine d’un tempo che non c’

Firenze si sveglia sotto una gelida coperta di brina. Pizzica la pelle di chi come me questa mattina non è nel suo letto, ma altrove per vie d’obbligo o per scelta.
Come di consueto si aprono le porte di un autobus che odora di freddo e di sudore. L’autista accoglie con un "Buongiorno" fumoso, avvolto nella sua sciarpa scura come la divisa.

Suona la fermata, come una sveglia per chi vuole ancora dormire. Mi alzo di nuovo, destandomi da pensieri che come sogni volano lontano.
Scendo. Il marciapiede riconosce i miei passi e mi guida verso il luogo di lavoro che ruberà l’oro di questo mattino come d’ogni giorno.

Ma mi da forza la tenacia di un gruppo di signori che vincono il freddo d’ogni giorno e la modernità. La città ed il suo progresso hanno rubato quel piccolo giardino ove solevano fermarsi a discutere le notizie del giorno, ma quegli uomini hanno nel cuore la fermezza del vivere e del volere.

Una rotonda di cemento e catrame ha rubato la poesia, così la congrega si è spostata, sedendosi su un alto marciapiede, su uno spartitraffico rialzato.

Ed ogni mattina è lì che incontro l’allegra congrega, affiancata dalle badanti che non comprendono il fiorentino e la sua poesia.
Auguro un buon giorno, ad ogni mio passaggio e trovo nei loro occhi i riflessi di un sole che sorge anche per me.

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