Trilly

Ho sceso, dandoti il braccio, almeno un milione di scale
e ora che non ci sei è il vuoto ad ogni gradino.

Recitava così una poesia studiata all’epoca del liceo.
Già in quel periodo c’era la Trilly a portarmi in giro per la città. A quell’epoca ero solo un passeggero, ma la panda verde era nella sua epoca migliore, al pieno del suo splendore. Era padrona delle strade del paese, incurante delle mode e del primo diffondersi delle vetture supposta (Ka).
Era lei l’Auto per eccellenza, l’utilitaria tutto fare, da paese e da campagna, da bosco e da città.

Giunse nel nostro garage nel lontano 1992. Avevo 13 anni, e tra i suoi sedili mi abbandonavo ai sogni e alle paure nei brevi e lunghi viaggi che più volte alla settimana mi portavano lontana da casa, tra mura affrescate di speranza, dove imparavo quell’arte malvagia che si impossessò del mio cuore.

Sognavo un futuro di musica e sogni, parole che non avrei mai saputo pronunciare, dipingevo nel mio cuore sentimenti che non avrei mai osato palesare, mentre il paesaggio scorreva lento e veloce fuori dal finestrino.

All’epoca era una auto seria, dominata dall’uomo. Ma con il tempo anche la Trilly imparò a farsi sentire.
Non aveva grande simpatia per mamma, o forse non era stato un reciproco amore a prima vista. Non era certo una auto particolarmente signorile, ma sapeva il fatto suo, e forse non amava essere messa in moto per fare solo duecento metri, quella distanza che divideva casa dall’ufficio di mamma.
Forse è per questo che spesso e volentieri decideva che il carburante non era sufficiente per i suoi gusti, e mamma tornava a casa a piedi…

Ma in mezzo ai litiganti non c’era il terzo a godere. Il terzo si arrabbiava, e da bravo toscano partiva da casa con la bottiglia di carburante e l’imbuto, accompagnando i suoi passi a sonore bestemmie.
Tornavano assieme, macchina e padrone, tranquillamente in simbiosi.

 L’utilitaria tutto fare non si preoccupava delle apparenze, sporca o pulita lasciava scorrere su di sè ogni intemperia, del tempo o della vita.
Pareva quasi che scrollasse le spalle alla pioggia e al sole. L’importante era vivere e non c’è niente di più vivo di una macchina che si mette in moto.
Se poi era la Trilly a partire, voleva dire che si partiva per andare all’avventura: al mare, in campagna.

Ci seguiva nelle ferie, appiccicandosi di salsedine e perdendosi tra parcheggi e divieti di sosta. Tutte le auto degli amici prima o poi lasciavano i passeggeri per la strada, lei no: scrollava la carrozzeria, si dondolava un pò sugli pneumatici e caricava tutti, belli e brutti, con valigie e bauli o con i sacchetti della spesa.

C’era… ed era la Trilly tutto fare: senza autoradio, senza climatizzazione, ma con quattro ruote e la filosofia della semplicità. 

Gli anni passarono, molte persone se ne andarono per le vie del cielo. La Trilly rimase senza padrone, erediando due autiste che non sapevano più che strada prendere, una delle due ancora non patentata, forse incapace di guidare anche se stessa per le strade della vita.

 Ma nessuno perse coraggio. La povera Panda Verde mostrava i suoi primi 12 anni, ed i primi acciacchi, ma la maturità le faceva scaturire il suo carattere ribelle.

Come tutti gli anziani soffriva il freddo ed al mattino presto non voleva più partire, borbottava, quasi protestando per le levatacce della mattina.
La cinghia cigolava per tutto l’inverno, come una sorta di artrite umana che si affievoliva solamente con i primi tepori della primavera.

Io, intanto, avevo preso la patente e così la Trilly accolse sul lato guida la seconda generazione. I primi giorni furono un banco di prova per conoscerci: parcheggi rassegnati secondo angoli creativi all’interno delle linee gialle o azzurre; il motore che si spegneva d’improvviso ad ogni stop, perchè mi voleva dire "Stop", ricordati che qui ti Devi fermare!"

Ma poi entrammo in sintonia, e fu un amorevole connubio. Come tutti gli anziani lasciava che portassi da lei il mio mondo bizzarro e creativo. Anche lei iniziò ad amare pupazzi, colori e pazzia.

Si avvicinavano i 20 anni e la cinghia d’inverno faceva sempre più rumore, Trilly sapeva che eravamo rimaste sole e che raramente potevamo gustarci un passeggero, così per istinto protettivo decise che non serviva più uno sportello pienamente funzionante, anzi, forse era proprio rischioso. Così lo chiuse in modo semi – definitivo, per cui i passeggeri potevano essere solamente selezionati in modo rigido dall’autista di turno e potevano entrare esclusivamente con il permesso dall’interno.

Si inserì anche una prima forma di antifurto nello sportello lato guida: una mattina, bel bella, mamma chiuse lo sportello a fine viaggio e, dopo aver chiuso si accorse con sorpresa che il tamburo rimaneva saldamente ancorato alla chiave.

Era un antifurto artigianale, ma funzionale: rimaneva un buco nello sportello e nessuno avrebbe potuto riaprire se non avesse portato con se le chiavi…. e pure la serratura!

 Iniziò in quel periodo la diatriba su quale fosse il nome più giusto per quella piccola automobile ribelle che decideva tutto di testa sua, incurante dei desideri dei proprietari:
Io la chiamavo
Trilly perchè tra gli addobbi di natale avevo trovato quella vetrofania a forma di campanellino che poi le rimase per sempre sul parabrezza, quale segno distintivo;
Mamma preferiva Ciuchina perchè era testarda come un mulo, se non desiderava mettersi in moto non c’era santo che la muovesse, però si faceva caricare qualunque cosa nel bagagliaio, dai fiori ai libri, alle cataste di legna, come le più brave mule da soma.

Così trovai il modo di accontentare entrambe: Divenne la  Ciuchina Trilly un’automobile di un mondo fantastico, che accontentava entrambe con i suoi campanellini e la sua caparbietà.

Trilly 13 L’abitacolo si fece sempre più colorato con il passare del tempo: un’ochetta iniziò a spenzolare il capo dal contachilometri, il ciuchino dominava la situazione, mentre la pigottina costruita dal "mio" bambino lontano mi accompagnava nei viaggi, dondolandosi e danzando al ritmo di buche e terreno sconnesso. Decine di farfalle si appoggiarono saldamente ai rivestimenti in plastica, mentre tre coccinelle colorate e ricche di brillantini porta fortuna si incollarono saldamente allo sterzo, al finestrino ed alla manopola del riscaldamento.

Sul retro la filosofia dell’utilitaria si fece parola concreta, ed un porta messaggi in legno ostentava così un "Basta poco per mandarlo a quel paese", quale monito per qualunque auto che tentasse di colpirci alle spalle.

Eravamo inconfondibili, io e Trilly, menefreghiste dell’etichetta, con il desiderio estremo di dire a tutti ciò che pensavamo, in positivo ed in negativo.

Per le feste natalizie comparve Babbo Natale e la calzetta della befana, e quel pensierino "Joy to you", che pareva di perfetto buon auspicio.

Anche i peluche non potevano che essere studiati alla perfezione per l’occasione: c’era la Nonna di Cappuccetto rosso, ed un uccellino beffardo seguito da una mattonella ben poco sibillina che recitava più o meno così:la perfezione non esiste, ma alle volte mi ci avvicino così tanto che quasi mi spavento!

 Ho sceso, dandoti il braccio, almeno un milione di scale
e ora che non ci sei è il vuoto ad ogni gradino.

Non scendevo le scale, nè potevo darti il braccio, mia cara Trilly. Forse le parole che recitava quella poesia sono quelle che mi sussurravi tu, proprio oggi, nel nostro ultimo viaggio.
Ho lasciato la papera dondolarsi sul contachilometri, ho lasciato i tuoi campanellini e il tuo ciuchino far capolino dallo specchietto.
Ti ho lasciato tutte le tue stelle, le farfalle e le coccinelle. Le ho lasciate al loro posto perchè non potevo farti il torto di toglierti ciò che avevo deciso di condividere con te, dopo 20 anni di convivenza.

Fosti parcheggiata sotto casa quando avevo poco più di 12 anni, hai accompagnato mia nonna, mio padre e poi me nelle strane strade dei nostri destini.

Ho lasciato una moneta nel portacenere, perchè chi ti guiderà possa pagare metaforicamente un biglietto per una nuova strada.
Ho lasciato il mio portachiavi a forma di cuore dentro il vano porta oggetti, perchè è il mio cuore che è rimasto ancorato a quei sedili, come i miei sogni di bambina.

E nei miei sogni, per tutta la vita, io avrò una sola macchina che mi accompagnerà qualunque sia la mia strada….

5 Comments
  1. Stè Rispondi

    Lavy…. riesci sempre a farmi commuovere…. uff uff… Che poi si chiama come la mia cagnetta!!!!

  2. valeria Rispondi

    Quando si dice che tutto ha un’anima… anzi, che è anima… che meraviglia vedere che qualcuno ancora lo sa, in un mondo dove anche le persone diventano cose e le cose diventano dèmoni.

  3. Anna Maria Bacceli Rispondi

    Sapevo che avevi un rapporto idilliaco con la tua Trilly, ma non immaginavo quanto fosse grande.E’ vero che quando ci lasciano le cose che amiamo perdiamo per sempre una parte di noi.Ora devi iniziare a costruire una nuova fase della tua vita poichè il tempo inesorabilmente va avanti .Anna Maria

  4. Anonimo Rispondi

    salve Lavy…voglio dire 2 cose:1.Sei forte e ho capito tante cose legendo la storia di Trilly,sei forte e basta..2,La/il Stè è fortissima/o con:”si chiama come la mia cagnetta”

  5. Anonimo Rispondi

    Eh… Anonimo… Lavy sa cosa voglio dire…Perchè nemmeno io ho più la mia Trilly…

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