Carnevale

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Questa sera sono partita armata di cuscino per fare le pernacchie. Volevo fare il mio scherzo di carnevale in un coro in cui troppo spesso la serietà la fa da padrone.
Non che io voglia meno serietà, ma un sorriso o una risata fanno sempre bene -a mio parere.

Sono partita con le mie armi da clown, ma mi ha sorpreso il ricordo.

Mi sono tuffata nei colori dei coriandoli e nella mia voglia di vestiti di carnevale, di quando ero bambina. Ho provato a far passare innanzi ai miei occhi i miei travestimenti come spettatore di una particolare sfilata.
Li ho ricordati tutti, uno ad uno. Partendo dalla dolce margherita bianca quando avevo poco più di quattro anni, fino all’ultimo, il pinguino.

E’ stato buffo riflettere a quanto mia mamma abbia dettato legge sulla sua bambolina per più di cinque lunghi anni, in cui si sono date il cambio un paio di damine, biancaneve e altre cose simili.
La mia ribellione al dettame materno è stata con lo spazzacamino. Quei pantaloni rubati al babbo, le bretelle del nonno, il cappellino, le corde aggrovigliate al posto delle collane delle dame… il "muso" sporco di carboncino e gli scarponi mi facevano sentire libera.

Avevo sempre odiato quei cerchi di bellezza che tenevano larghi i vestitoni snob di trine e vellutino, adornati di medagliette e medaglioni, con ombrellini di pizzo e trucco stucchevole. Ricordo la goduria del sembrare sporco, potermi sedere per terra senza pensare troppo a dove poggiare le terga, tanto il travestimento doveva essere "vissuto".

Sai mamma, provai una soddisfazione tremenda a vincere il premio per la maschera più simpatica quell’anno. Ero piccola, è vero, ma già sufficientemente ribelle da gioire per una vittoria sporca di carbone contro l’indifferenza coperta di belletto.

Dopo lo spazzacamino fu la volta della Principessa Incas. Credo fosse il vestito più stupido che abbia mai cercato. Tu, da brava mammina che vuole esaltare il femminile, puntavi per una principessa o cose simili. Io che detestavo le corone ed i rossetti, puntavo alla storia.
Riuscimmo ad arrivare ad un compromesso con quell’abito rosa: un lenzuolo fino ai piedi con quattro piume attaccate davanti ed una ruota da pavone sulla testa.
Fu così che iniziò la saga del ridicolo.

Dopo si susseguirono gli abiti del mio periodo nero: Diavoletto (non sexi come tutte le altre ragazze, quello sfigato, una tuta unica con tanto di mantello di lana e colletto di toulle che mi rendeva un omino michelin vestito da sera), Pipistrello, Dracula.

Poi l’ultimo: Pinguino.
Rimarrà nella mia mente per sempre. Non certo nel cuore, sicuramente sullo stomaco. Il cerchio tanto odiato come damina era all’altezza della pancia. Due metri e Venti di Diametro.
Non ballai con nessuno quella sera.
Il cappello a forma di becco ricurvo mi impediva di vedere qualunque cosa. Tornai a casa piena di lividi perchè le porte e gli spigoli erano tutti miei.

Ricordo con invidia le coppiettine dei miei compagni di scuola, appartate chi su un divano, chi sull’altro, chi ballava, chi si abbracciava.

Passai tutta la serata nell’angolo, per non intralciare il passaggio. Appoggiata ad una sedia, non potevo sedermi perchè il cerchio non si poteva piegare e sedendomi si alzava picchiandomi nel naso e coprendomi il viso con il pancione bianco del pinguino.

Ricordo i 5 kilometri a piedi in piena notte: due metri e venti di diametro ad altezza pancia.
Nessuno fu capace di farmi entrare in una macchina per darmi un passaggio.

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